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Non buttiamo l’acqua sporca con tutto il bambino

Mar 21, 2022

Sul Sei Nazioni maschile è calato il sipario. Una chiusura ‘con il botto’ per la Nazionale italiana che è andata a vincere in Galles con una magia all’ultimo minuto. Nel corso di questo mese e mezzo ci siamo limitati alla cronaca, senza esprimere opinioni o fare analisi sulle singole partite. E’ stata una scelta, determinata dalla necessità di non parlare giusto per il gusto di farlo e per non cadere nell’errore di dover smentire a distanza di 7 giorni il giudizio della partita precedente.

Non vi è alcun dubbio che la vittoria sul Galles abbia ribaltato la percezione di addetti ai lavori e appassionati rispetto al cammino dell’Italia. Senza quella meta di Padovani propiziata dal jolly calato da Capuozzo all’ultimo respiro, forse non avremmo registrato le scene di giubilo (legittime) andate in scena un po’ ovunque.

In ogni caso però l’analisi del cammino azzurro non avrebbe potuto non tenere conto di due aspetti fondamentali, entrambi certamente positivi: il progresso evidente della Nazionale italiana di proporsi e la bassa età media dei giocatori utilizzati. Pur se avessimo perso in Galles, questo Sei Nazioni doveva ripartire da questi due pilastri fondamentali, il cui merito va ascritto Kieran Crowley. Al Commissario Tecnico va riconosciuto il coraggio di affidarsi a giovanissimi giocatori, ma anche il coraggio di non aver arretrato di un millimetro davanti agli errori evidenti degli stessi. Anche al cospetto di critiche a volte esagerate, Crowley ha tenuto la barra dritta, trasmettendo fiducia e sicurezza a chi andava in campo.

Come già sottolineato, l’età media degli azzurri è la più bassa del torneo. Ci sono giovanissimi nati nel ’98 nel ’99 e nel ‘2000, ragazzi che non vengono fuori dal nulla. Nella maggior parte dei casi provengono dal sistema di formazione voluto dalla precedente gestione federale (a proposito: perché non troviamo più gli asterischi accanto ai nomi dei convocati) che, è il caso di dirlo, qualcosa di buono avrà prodotto, se è vero come è vero che la Nazionale U18 nelle ultime tre stagioni ha battuto tutte le nazionali di elité, e che l’Under 20 da tre stagioni gioca il Sei Nazioni sui livelli delle altre, tanto da ottenere tre successi nell’ultima edizione.

Ora però il nuovo corso ha deciso di cambiare: due Accademie e 10 poli formativi che saranno affidati alle società più strutturate. Ecco il punto è questo: quante sono le società che possono permettersi una foresteria? Una struttura degna di questo nome e, soprattutto, tecnici con preparazione superiore alla media? E tutte queste cose in cambio di un contributo che oscilla tra i 75 e i 100mila euro. Ma soprattutto quante sono società in grado di garantire l’alto livello al sud? E in ultimo: siamo certi che ci sia bisogno di cambiare, o lo si fa per partito preso?

Non stiamo rischiando di buttare a mare l’acqua sporca con tutto il bambino? Il sistema Accademie non era e non è perfetto, sicuramente andrebbe migliorato, ma a nostro avviso aveva iniziato a dare i frutti sperati. Ora che in effetti i primi risultati, soprattutto con le Nazionali giovanili, sono arrivati, rischiamo di fare un passo indietro.

A noi sembra che ci sia prevenzione nei confronti di ciò che è stato. La Federascione come si diverte a definirla chi vede nell’ex direttore tecnico della Fir il male assoluto del rugby italiano, alla fine qualcosa ha prodotto e andrebbe riconosciuto. Ma non per spirito nostalgico, ma per amor del vero. Se il rugby italiano vuole progredire dovrebbe partire dalla “pacificazione” del movimento. Ed è quello che dovrebbe fare Marzio Innocenti: mettere da parte i risentimenti, anche personali, e lavorare con obiettività e serenità. Se c’è qualcosa da salvare della vecchia gestione, a cui non possono essere non imputate alcune scelte infelici, va salvata. Sia in termini di progettualità, sia in termini di uomini.

Il territorio consegna a cadenza regolare scontri tra società, tra dirigenze: piccole o grandi gelosie, divergenze su questioni spesso irrilevanti. Parliamo proprio di quella litigiosità alimentata anche dal “campanile” che ha fatto presa sulla “base” e che non aiuta il progetto comune. La “pacificazione” ricercata dall’alto, potrebbe avere ricadute positive proprio sul territorio. Infondo chi è al vertice deve sempre dare l’esempio.

Mentre i vertici federali troppe volte indugiano su ciò che è stato fatto (male) da chi c’era prima, come se sottolineare gli errori fosse utile alla loro soluzione. Detto questo deve essere chiara una cosa: non puo’ una vittoria cancellare con un colpo di spugna tutti gli interrogativi ancora inevasi. Non puo’ la vittoria sul Galles farci dimenticare che sul Seven siamo fermi, che il Progetto Sud latita, che le casse federali rischiano di andare in sofferenza.

Non possiamo e non vogliamo mollare nulla su questo aspetto, perché significherebbe venir meno al nostro ruolo che rimane quello della critica, anche aspra, finalizzata al miglioramento dell’intero movimento. E’ un’ambizione che può far pensare alla presunzione, ma non è così: bisogna sempre puntare in alto per ottenere il massimo.